La resistenza al trattamento nel melanoma è una problematica clinica importante.
La miglior comprensione dei meccanismi cellulari alla base della resistenza al trattamento sta conducendo verso nuove prospettive nella gestione dei pazienti con melanoma metastatico.
Il melanoma metastatico è associato a una prognosi negativa ed è ampiamente refrattario ai trattamenti standard tradizionali. Negli ultimi anni, lo sviluppo di inibitori a bersaglio molecolare e l’immunoterapia hanno rivoluzionato la cura e migliorato la sopravvivenza globale dei pazienti. Le terapie inibitrici di BRAF e MEK che bloccano la via del mitogen-activated protein kinase (MAPK) sono state le prime a mostrare risposte cliniche senza precedenti. Seguendo tali risultati incoraggianti, gli anticorpi inibitori dei checkpoint immunitari diretti contro il cytotoxic T-lymphocyte-associated antigen 4 (CTLA-4), il programmed cell death (PD)-1 e il PD-ligand1 (PD-L1) si sono dimostrati associati a regressione tumorale persistente in un gruppo significativo di pazienti consentendo una risposta immunologica antitumorale. Nonostante questi cambiamenti, nella pratica clinica la maggior parte dei pazienti sono intrinsecamente resistenti o acquisiscono rapida resistenza al trattamento con gli inibitori della via MAPK o agli inibitori dei checkpoint immunitari.
L’immunoterapia sta velocemente cambiando il panorama dell’oncologia.
Al momento, lo standard di cura per i pazienti con melanoma metastatico o non resecabile include terapie immunomodulanti come i farmaci anti-PD-1 (nivolumab, pembrolizumab) e anti-CTLA-4 (ipilimumab).
I miglioramenti della sopravvivenza libera da progressione e della sopravvivenza globale connessi con questi trattamenti sono stati senza precedenti e confermati da studi clinici di fase 3.
Il nivolumab è stato associato a miglioramenti significativi della sopravvivenza globale e della sopravvivenza libera da progressione rispetto alla dacarbazina, nei pazienti precedentemente non trattati che avevano un melanoma metastatico senza mutazione di BRAF. [1]
Il blocco di PD-1/P-L1 ha effetti promettenti nell’immunoterapia per il melanoma.
Rimuovendo i cosiddetti "freni” sulle risposte immunitarie T cellulari tramite il blocco del checkpoint PD-1/PD-L1 si dovrebbe incrementare l’immunità antitumorale fornendo regressione tumorale persistente nei pazienti oncologici. Tuttavia, il 30-60% dei pazienti non mostra risposta al blocco di PD-1/PD-L1. [2]
Si ritiene che i meccanismi che promuovono la resistenza includono prevalentemente l’esclusione o l’esaurimento T cellulare in sede tumorale, fattori immunosoppressivi nel microambiente tumorale e una serie di fattori intrinseci al tumore.
La regressione tumorale dopo il blocco terapeutico di PD-1 richiede cellule CD8(+) T preesistenti che sono regolate negativamente dalla resistenza immunitaria adattativa mediata da PD-1/PD-L1. [2]
Il trattamento con un mAb anti-PD-1 aumenta anche l’interferone (IFN) γ e il fattore di necrosi tumorale (TNF, tumor necrosis factor) produttori di cellule T CD4+ T specifiche per antigeni associati al melanoma. [2]
Sono fortemente necessari marcatori biologici per predire l’esito del blocco del check-point immunitario poiché possono influenzare la selezione o la sequenza di un trattamento individuale.
Seguendo il trattamento con pembrolizumab nei pazienti con melanoma, un valore alto di eosinofili e di conta relativa dei linfociti, bassi livelli di lattato-deidrogenasi e l’assenza di altre metastasi oltre a quelle dei tessuti molli/polmoni sono stati considerati elementi basali indipendenti associati a una sopravvivenza globale favorevole. [3]
Infatti, la presenza di questi quattro fattori in combinazione identifica un sottogruppo di pazienti con prognosi eccellente. Al contrario, i pazienti senza fattori favorevoli presentano una prognosi negativa.
Nel cancro del colon-retto, la positività per mutazioni dei geni del “mismatch-repair” predice il beneficio clinico del blocco del check-point immunitario con pembrolizumab.
Studi recenti hanno mostrato che il carico di neoantigeni può costituire un marcatore biologico nell’immunoterapia fornendo un incentivo per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici che aumentino selettivamente la reattività T cellulare contro questa classe di antigeni. [4]
In merito a ciò, è stato proposto l’uso di un “immunogramma del cancro”. Questo strumento include una serie ampia di parametri non correlati come la “foreignness” tumorale e i meccanismi inibitori delle cellule T.
Inoltre, il “valore” di tali parametri può differire enormemente tra i pazienti. [4]
Per esempio, in alcuni pazienti, l’inibizione intratumorale delle cellule T tumore-specifiche sarà l’unico difetto da essere risolto, mentre in altri pazienti il tumore potrebbe essere non sufficientemente estraneo per sviluppare una risposta T cellulare clinicamente rilevante.
A causa della natura multifattoriale delle interazioni cancro-immunità, verranno richieste per definizione delle combinazioni di marcatori.
Numerosi report hanno fortemente suggerito che la terapia con blocco dei checkpoint immunitari porta alla sovraregolazione dell’IFN-γ e all’eliminazione delle cellule tumorali. [5]
L’IFN-γ gioca un ruolo duplice e opposto nella regolazione del cancro.
La via dell’IFN-γ inibisce la crescita del tumore arrestando il ciclo cellulare, inducendo l’ischemia tumorale, attivando le cellule effettrici e inibendo le cellule immunitarie soppressive.
Allo stesso tempo, essa contribuisce alla crescita del tumore promuovendo la genesi tumorale e l’angiogenesi, aumentando la regolazione delle molecole di tolleranza e inducendo un programma di omeostasi.
Le risposte del melanoma all’IFN-γ sono eterogenee e frequentemente sottoregolate nel melanoma non sottoposto a trattamenti con inibitori dei checkpoint immunitari, che può essere usato come predittore della risposta all’immunoterapia.
Il blocco di PD-1 può aumentare la durata delle risposte antitumorali che sono indotte dalla combinazione dell’inibizione di BRAF e MEK1.
Oltre il 50% dei melanomi hanno mutazioni di BRAF, la più comune delle quali è la V600E.
La mutazione BRAFV600E provoca l’attivazione costitutiva della via MAPK determinando resistenza farmacologica o immunologica, elusione dell’apoptosi, proliferazione, sopravvivenza e metastasi da melanoma.
In uno studio randomizzato di fase 2, i pazienti con melanoma avanzato e mutazione BRAFV600E/K non trattato, hanno ricevuto l’inibitore di BRAF dabrafenib e il MEK inibitore trametinib insieme con l’anticorpo anti PD-1 pembrolizumab o il placebo. [6]
La sopravvivenza libera da progressione era numericamente maggiore nel gruppo con triplice terapia – 16,0 vs 10,3 mesi del gruppo con duplice terapia (HR 0,66; P = 0,043); tuttavia, lo studio non ha raggiunto il beneficio pianificato con un miglioramento statisticamente significativo.
La durata mediana della risposta è stata di 18,7 mesi e di 12,5 mesi (intervallo di confidenza 95%, 6,0-14,1).
Perciò, la triplice terapia con dabrafenib, trametinib e pembrolizumab può essere una strategia terapeutica promettente che può aiutare a superare i problemi di resistenza al trattamento.
Schumacher TN, Schreiber RD. Neoantigens in cancer immunotherapy. Science. 2015 Apr 3;348(6230):69-74.
Müller-Hermelink N, Braumüller H, Pichler B, et al. TNFR1 signaling and IFN-gamma signaling determine whether T cells induce tumor dormancy or promote multistage carcinogenesis. Cancer Cell. 2008 Jun;13(6):507-18.
Ascierto PA, Ferrucci PF, Fisher R, et al. Dabrafenib, trametinib and pembrolizumab or placebo in BRAF-mutant melanoma. Nat Med. 2019 Jun;25(6):941-6.
Presentato da: Prof. Kristian Reich, Translational Research in Inflammatory Skin Diseases, Institute for Health Services Research in Dermatology and Nursing, University Medical Center Hamburg-Eppendorf, and Skinflammation® Center, Hamburg, Germany
Presentato da: Prof. Spyridon Gkalpakiotis, Department of Dermatovenereology, Third Faculty of Medicine and University Hospital of Kralovske Vinohrady, Prague, Czech Republic.